
“Alla Caritas l’ascolto non è mai fine a sé stesso: è il primo passo per capire cosa c’è davvero dietro una richiesta. A volte basta una bolletta non pagata per scoprire un’intera storia di solitudine, precarietà e bisogno di senso.”
Da 23 anni Emanuela Fiore vive e anima la Caritas di Avellino. Per molto tempo si è occupata del mondo dell’immigrazione, accogliendo e accompagnando uomini e donne che cercavano di costruirsi una nuova vita in un paese straniero. È stata responsabile del centro di ascolto diocesano “Babele” per stranieri, e dal 2019 ha ricevuto dal Vescovo l’incarico ufficiale di delegata dell’Ufficio Migrantes, con competenza non solo su migranti e rifugiati, ma anche su italiani all’estero e popolazione rom.
Da quest’anno Emanuela ha preso in carico una nuova sfida: guidare il centro di ascolto “Zaccheo”, il servizio dedicato agli italiani in difficoltà, in particolare nell’area urbana di Avellino. È qui che, ogni giorno, Emanuela riceve, ascolta, osserva, discerne. Proprio come indica il metodo Caritas: ascoltare, osservare, discernere.
“L’ascolto non è un gesto assistenziale, ma educativo. È un’azione che permette di andare oltre la richiesta immediata – un pacco viveri, una bolletta, un cambio di vestiti – e capire da dove nasce quel bisogno. Le cause della povertà sono spesso nascoste. E non sempre hanno a che fare col reddito.”
Nel suo lavoro, Emanuela si confronta con diverse forme di fragilità. Ci sono i senza dimora, che bussano per una doccia o un letto al dormitorio. Ci sono i “pellegrini sociali”, persone in cammino, che si fermano alla Caritas dopo averla trovata su internet, sapendo di trovare accoglienza. Ci sono gli anziani soli, le madri in difficoltà, gli italiani che portano il problema di un figlio, di un fratello, di un genitore. E poi ci sono gli stranieri, spesso più attivi, più pronti a dare una mano oltre che a riceverla.
“La povertà ha tante forme – ricorda Emanuela -. Ci sono persone che avrebbero un reddito sufficiente, ma vivono in una solitudine talmente profonda da rendere tutto insostenibile. Altri usano male ciò che hanno. Altri ancora sono semplicemente bloccati, come paralizzati da un passato difficile.”
Tra le esperienze più belle che Emanuela racconta, ci sono quelle di accoglienza trasformata in restituzione. “A volte un ospite diventa risorsa. Alcuni, in base alle loro competenze, restano e cominciano a offrire servizi: interpreti, cuochi, operatori notturni. Ricordo una signora ucraina, psicologa nel suo paese, che ha voluto aiutare i suoi connazionali fuggiti dalla guerra. Questa è integrazione vera.”
Oggi la Caritas può contare su una piccola “equipe interculturale”: una decina di persone di varie nazionalità che, gratuitamente, aiutano con traduzioni, mediazioni, servizi pratici. Dalla lavanderia alla cucina, dalla stireria all’orientamento linguistico e burocratico.
“Mettiamo in contatto chi arriva con referenti delle comunità etniche. Parlare con qualcuno che viene dal tuo stesso paese accelera il processo di integrazione – evidenzia -. Ti senti meno solo, più compreso. È come trovare un ponte che ti aiuta a passare dall’altra parte del fiume.”
Emanuela ha uno sguardo profondo sulle dinamiche sociali. Nota come spesso i migranti, proprio per il vissuto complesso che si portano dietro, siano più pronti a restituire: “Chi ha attraversato il dolore, sa quanto vale un gesto. È meno passivo. L’italiano a volte è più chiuso, si ferma alla richiesta. Ma chi ha vissuto la mancanza vera è pronto anche a dare.”
Al centro “Zaccheo” passano in media 5 o 6 persone al giorno, sempre su appuntamento. “Vogliamo garantire a ciascuno il giusto tempo. Solo così l’ascolto è vero, profondo, trasformativo. La fiducia si costruisce col tempo. E senza fiducia, non c’è cambiamento.”